Diffamazione e ingiuria “via Whatsapp”: rileva la contestualità fra la comunicazione oltraggiosa e la sua ricezione.

Con la sentenza n. 27540 del 1 marzo 2023, la Corte di Cassazione si è espressa nuovamente in merito al delicato rapporto tra diffamazione e ingiuria. La differenza tra le due fattispecie è notevolmente rilevante, in quanto la prima costituisce un reato mentre la seconda un mero illecito civile (a seguito dell’abrogazione dell’art. 594 c.p. avvenuta ad opera del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7).
Il ricorrente veniva condannato sia in primo che in secondo grado per il reato di diffamazione, avendo offeso la reputazione di due soggetti attraverso messaggi indecorosi inviati su un gruppo WhatsApp. Nello specifico, l’imputato sosteneva che nel caso di specie, visto il mezzo di propalazione dell’offesa (una chat di messaggistica istantanea alla quale partecipavano entrambe le persone offese), si fosse instaurato un rapporto diretto tra offensore e offeso, in virtù del quale quest’ultimo avrebbe potuto interloquire e controbattere immediatamente al fine di difendere la propria reputazione. Pertanto, il ricorrente chiedeva la riqualificazione della condotta contestata in ingiuria, al fine di ottenere una assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. A sostegno di suddetta tesi, nel ricorso per cassazione veniva citato un precedente della Suprema Corte secondo cui “integra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, e non il delitto di diffamazione, la condotta di chi pronunzi espressioni offensive mediante comunicazioni telematiche dirette alla persona offesa attraverso una video chat, alla presenza di altre persone invitate nella chat, in quanto l’elemento distintivo tra i due delitti è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore” (Cass. pen., sez. V, 31 marzo 2020, n. 10905).
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ritenendo manifestatamente infondato il motivo di doglianza di cui sopra. La Suprema Corte ha, in particolare, sottolineato la modalità temporalmente asincrona con cui i diversi componenti di un gruppo WhatsApp possono accedere alla lettura dei messaggi, a differenza di quanto avviene, invece, in video chat. Sistemi come WhatsApp – aggiunge la Corte – vengono definiti di “messaggistica istantanea” in virtù dell’immediata trasmissione dei messaggi, ma ciò non implica la contestuale ricezione degli stessi, che può dipendere da numerosi e variabili fattori (ad es. telefono spento o non collegato alla rete oppure impossibilità di visualizzare immediatamente il messaggio). Pertanto, la Suprema Corte di Cassazione ha concluso asserendo che si configura l’illecito civile dell’ingiuria, e non il reato di diffamazione, solo se vi è contestualità fra la comunicazione oltraggiosa e il recepimento della stessa da parte della persona offesa.